Code per curiosi
racconti, dialoghi, libri capitoli e scritti vari usciti dalla mia penna (antico nome italico per definire una tastiera)
mercoledì 29 giugno 2016
giovedì 10 gennaio 2013
Migrazione in corso!
Ho deciso di migrare a wordpress quindi il blog si aggiornerà di là e non più qui.
l'indirizzo nuovo:
http://codepercuriosi.wordpress.com/
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martedì 25 dicembre 2012
Il cenone
Due ore e quaranta minuti.
Cosa saranno mai due ore e quaranta minuti per raggiungere la casa di Gabriella e del marito Alfonso, figure a cui sono legato da un grado di parentela non facile da specificare, per il cenone di natale...
«Finalmente, ecco il nostro Renato!» esclama un ciccione sulla cinquantina, a me completamente ignoto. Vieni, che ti faccio appoggiare il cappotto» La casa, sebbene sia dispersa in mezzo a un territorio che ricorda le lande più desolate del “Signore degli Anelli”, è piuttosto accogliente. Per entrare bisogna superare una muta di randagi rabbiosi che attaccano chiunque si avvicini alla magione. Poi si attraversa un cortile realizzato nel classico stile dei vecchi cascinali lombardi e si entra in un grande salone, riscaldato da un camino. Per fortuna c’è il vecchio zio Lino che, a dispetto dell’età, si accorge per tempo -dal rombo dei motori- delle macchine in arrivo e corre in cortile a bloccare le tre gigantesche belve assetate di sangue, che rispondono al nome di Birillo, Berta e Beniamino.
«Vogliono solo giocare!», dice il ciccione chiudendo la porta, mentre fuori il vecchio zio Lino cerca di farsi rispettare dalle tre mostruose creature urlando parole incomprensibili: «Voran! Platz! Fuss!». E’ evidente che le bestie sono state allevate durante il reich e sono immortali.
Diversi ospiti devono ancora arrivare, in mezzo al salone c’è mia madre che sta parlando con una vecchia megera ingioiellata. Me ne ricordo in modo vago, da ragazzino l’ho già vista di sicuro. Meno rugosa di adesso, ma già allora impegnata a recitare il suo ruolo di vecchia zitella di buona famiglia, con i suoi formalismi e l'attenzione alle buone maniere. Sulla sua identità, buio completo. La megera mi osserva. Mia madre mi saluta. La megera finge stupore, dice «Ma è tuo figlio? Oh, signore Gesu, ma che bel giovanotto sei diventato! E che alto, mi raccomando non crescere più!».
No signora, ho trentadue anni, senza dubbio non cresco più.
«Te la ricordi la zia Paola, vero Renato?» interviene mia madre. Senza dubbio mia madre non ha fatto apposta ma il suo intervento è risolutore: ora so che questa cariatide risponde al nome di Paola. Non che me ne importi qualcosa, ma almeno evito figuracce. “Eh la zia Paola, come no».
«Fatti salutare bene», prosegue la vecchia, avvicinandosi e porgendo la guancia. Ma cazzo! Mi tocca pure baciare questa mummia, che sembra essersi rovesciata in testa una boccetta intera di profumo dolciastro e ributtante. Mentre mia madre inizia a raccontare la storia della mia vita mi allontano più in fretta che posso. «E’ stato in Inghilterra cinque anni» sta dicendo lei. Arrivato in cucina vedo zia Elsa impegnata nel dirigere i preparativi. Scandisce i tempi come un direttore d’orchestra, tre donne eseguono velocemente i suoi ordini. Il profumo del porro che soffrigge insieme a cipolle e carote domina vicino all’ingresso. Pochi passi più in là viene sovrastato dall’aroma di un brasato che da diverse ore sobbolle sul fornello. Mia cugina Maria si appresta a qualche operazione di sicuro interessante, con una bottiglia di Barolo. Probabilmente preparerà il sugo per la carne. In fondo alla cucina trovo mio padre che al suo solito sta divorando un salame mentre trova giustificazioni improbabili per la sua stessa condotta vorace. «...no perchè quest’anno ha piovuto parecchio e l’alimentazione stessa dei suini ne ha risentito, le ghiande erano molto più acquose e le carni infatti, dagli insaccati alle parti di consumo più immediato, hanno una consistenza e un valore calorico completamente diverso». Il suo interlocutore avrà superato il secolo di vita, capisce l’Italiano ma non lo parla.
«L’è no bon?*», chiede, seduto su una sedia di legno, con il mento appoggiato al suo bastone da passeggio. «Certo che è buono, ma è leggero. Mangiare un salame di questi equivale a due fette di un salame normale»
«Aah!» annuisce il vecchio, che viene interrotto dallo zio Michele. “Nonno, lascia stare Fernando, non dargli fastidio e stai bravo lì seduto»
«Ma va a dà via il cü**!», impreca il vecchio, mentre il babbo lo giustifica dicendo «Michele figurati non mi dà nessun fastidio, ho solo pensato volesse assaggiare un po’ di salame, per questo ne stavo affettando uno»
Torno in sala appena in tempo per assistere a un’invasione di stampo barbarico, quattro bambinetti sui sei sette anni che spuntano correndo da una camera e distruggono qualsiasi cosa intralci il loro cammino, inseguiti senza successo da giovani madri fintamente disperate, tra cui la cugina Lidia e la cugina Francesca. Quest’ultima è orribile. Mi stupisce che abbia trovato un disgraziato che l’ha sposata. Insieme hanno concepito un pestifero mostriciattolo albino che mentre corre grida come un pazzo imitando la sirena di un’ambulanza.
«EEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEeeeeeeeeeeeeeeeEEEEEEEEEEEEEEEEeeeee»
«Kevin smettila immediatamente», grida la madre. Kevin. Cristo che nome, ma io dico, abiti a Vercelli, non a New York, per quale motivo devi chiamare un bambino Kevin?
Mia madre intanto sta parlando con la zia Vittoria.
«Ma che meraviglia!» commenta, osservando la collana indossata dalla zia.
«Angela, non dirlo a nessuno, ma è bigiotteria»
«Veramente? E’ incredibile, sembra vera... Renato, non saluti la zia Vittoria?»
Ecco, mi ha incastrato anche questa volta. «Ciao zia, auguri»
«Auguri, Renato caro, ma che bel ragazzo... ma senti glielo regali un nipotino a tua mamma? Guarda la mia Francesca che mi ha fatto Kevin, quel bambino è la mia gioia»
«Eh zia tu sì che hai tutte le fortune»
Mia madre si sente in dovere di insistere. «Ma davvero, e anche Lidia che ne ha due» Poi abbassa la voce e si guarda attorno con atteggiamento da carboneria «Certo Vittoria, diciamocelo, i due gemellini di Lidia sono proprio bruttini. Il vostro Kevin invece, tutt’altra pasta... si vede che è speciale. Vivace, allegro. Un amore!».
Finalmente fa il suo ingresso Gabriella, che probabilmente è rimasta chiusa in bagno a prepararsi per tre giorni, se si esclude una pausa dal parrucchiere nel pomeriggio. Mia madre sussurra a Vittoria «Guarda che mancanza di gusto, entra come una vamp dopo che gli ospiti sono arrivati, senza nemmeno averli ricevuti»
Vittoria dice «Ah, sì. E poi non mi dire che una della sua età sta bene vestita così. Ma hai visto la collana?»
«Sì un doppio giro di perle e murrine, bella eh, ma con tutte quelle rughe sul collo attira proprio l’attenzione nel posto sbagliato. E il vestito?»
«Terribile, un tubino anni settanta, tipico di una che vuol fare la giovane, e lei non se lo può certo permettere»
Dietro a Gabriella il marito Alfonso, trafelato, porta un vassoio con diverse bottiglie di spumante.
Lei gli indica il carrello dove posare il vassoio. «Bene», esordisce «Possiamo iniziare a brindare a questo Santo Natale. Alfonso, vai a chiamare tutti. Michele, versa lo spumante».
Dopo qualche istante siamo tutti riuniti nel salone per il primo brindisi, quando il ciccione che mi ha accolto in casa si porta al centro dell’attenzione. «Alt! no no no no no così non va bene. Manca ancora Gianluca. Non vorremo mica brindare senza Gianluca»
Il nonno di Michele, o almeno credo sia il nonno di Michele, il vecchio che mangiava il salame insomma, si è ormai affezionato a mio padre e gli sta attaccato. «Chi?», domanda.
«Il fratello di Giulio, nonno», risponde mio padre. A quanto pare lo chiamano tutti nonno. «Quello che tartaglia, e prima che morisse sua mamma non tartagliava, pover’uomo»
«Ah, cul tarlüc là? Ma c’al vaia a dà via i ciap***!» replica il nonno appena prima di sgolarsi l’intero bicchiere di spumante in un solo sorso. Qualcuno dice «Ma insomma, se si dice alle otto e mezza bisogna venire alle otto e mezza». Lidia si preoccupa «E se gli fosse successo qualcosa?». Elsa è pragmatica «Sì, si sarà addormentato davanti al televisore oggi pomeriggio».
Poi si apre la porta della casa, e finalmente compare Gianluca, sudato come un maiale. «S-s-s-scusate m m ma m m m m mi mi mi haanno inseguito ic ic i cani p p p p p poi è aa arrivato l-l-lozioLino» si giustifica, sputando in ogni direzione come un irrigatore da giardino. Tutti iniziano a brindare dilungandosi in auguri e inutili salamelecchi. Uno dei vari cugini per qualche ragione trova divertente augurare buone feste a tutti in spagnolo, e ad ogni persona fare una specie di inchino forse ad imitazione di un ballerino di tango o di flamenco. Per fare il giro di tutti i parenti ci impieghiamo un quarto d’ora e quando finalmente riesco a bere lo spumante è diventato caldo.
All’improvviso un urlo agghiacciante, proveniente dalla cucina, gela il sangue dei presenti. Corriamo tutti a vedere cos’è successo. Elsa è svenuta. Gabriella le porge un bicchiere d’acqua mentre si riprende, con Giulio che le sorregge la testa.
«Il brasato... è sparito», riesce a dire Elsa.
Gabriella, inginocchiata accanto a lei alza gli occhi verso gli invitati. «Guardate io non dico niente ma se è uno scherzo è davvero di pessimo gusto»
Zia Paola ipotizza innocentemente «Saranno stati i bambini».
Francesca si sente in dovere di difendere il figlio «Ma perchè dovrebbero essere stati i bambini! E’ comodo parlare dando la colpa a qualcuno, guarda Paola stai zitta perchè se dovessi parlare io ne avrei di cosa da dire, ma ne avrei per così, è ovvio che hai perso lucidità con l’età ma sto zitta che è meglio»
Mia madre sbotta. «Ah questo per te è stare zitta eh? Ma certo, si capisce da dove ha preso tuo figlio Kevin. Kevin, che nome poi... è normale che Paola pensi ai bambini, visto che il tuo è un ragazzino viziato e diciamocelo, maleducato!»
«Ma sentila!» interviene Vittoria, «Dici così solo perchè io ho un nipote e tu no, tutta invidia la tua!»
«Ah di certo non ho niente da invidiare a una che viene alla cena di Natale con una collana di bigiotteria»
Tutti gli sguardi delle donne si posano sulla collana di Vittoria, mentre questa arrossisce violentemente. Gabriella scuote la testa schifata. «Davvero, che cattivo gusto. Si vede lontano un chilometro che non è vera.»
Vittoria si riprende dallo shock. «Ah parliamo di gusto? Proprio tu che vai in giro conciata come una ragazzina, cosa che anche Angela qui, che fa tanto la moralista, non ha perso tempo a far notare a tutti»
«Sei una vigliacca!»
«E tu sei una troia! O almeno la eri, adesso non ti vuole più nessuno, neanche tuo marito».
Decido di andarmene per conto mio, prima che Gabriella cacci tutti.
Fuori l’aria è fredda. Birillo mi si avvicina scodinzolando, mi fa un po’ di festa. Non sembra neanche più lo stesso cane di prima. In fondo, vicino a una piccola baracca degli attrezzi c’è seduto lo zio Lino, assieme agli altri due cani che stanno finendo di sbafarsi il brasato.
«Avevano proprio fame, povere bestie», dice. «Li ho visti agitati quando è arrivato il tartaglione, meno male che sono andato in cucina e ho visto che avevano preparato un po’ di carne per loro»
«Zio Lino, ma sei sicuro che fosse proprio per loro?»
«Ma sì, Alfonso la carne non la mangia e Gabriella è sempre a dieta. Qui se preparano della carne, le rare volte che lo fanno, è per i cani. Non vedo perchè stavolta non doveva essere così»
«Eh già. Perchè no? Ciao zio Lino, buon Natale»
«Ciao Renato, salutami i tuoi genitori, fagli gli auguri»
«Zio Lino, sono in casa i miei genitori»
«Ah già, sì sì, la mia memoria non è più quella di una volta...»
* Non è buono?
**Ma vai a dare via il culo
***Ah quel babbeo là? Ma che vada a dare via le chiappe
Cosa saranno mai due ore e quaranta minuti per raggiungere la casa di Gabriella e del marito Alfonso, figure a cui sono legato da un grado di parentela non facile da specificare, per il cenone di natale...
«Finalmente, ecco il nostro Renato!» esclama un ciccione sulla cinquantina, a me completamente ignoto. Vieni, che ti faccio appoggiare il cappotto» La casa, sebbene sia dispersa in mezzo a un territorio che ricorda le lande più desolate del “Signore degli Anelli”, è piuttosto accogliente. Per entrare bisogna superare una muta di randagi rabbiosi che attaccano chiunque si avvicini alla magione. Poi si attraversa un cortile realizzato nel classico stile dei vecchi cascinali lombardi e si entra in un grande salone, riscaldato da un camino. Per fortuna c’è il vecchio zio Lino che, a dispetto dell’età, si accorge per tempo -dal rombo dei motori- delle macchine in arrivo e corre in cortile a bloccare le tre gigantesche belve assetate di sangue, che rispondono al nome di Birillo, Berta e Beniamino.
«Vogliono solo giocare!», dice il ciccione chiudendo la porta, mentre fuori il vecchio zio Lino cerca di farsi rispettare dalle tre mostruose creature urlando parole incomprensibili: «Voran! Platz! Fuss!». E’ evidente che le bestie sono state allevate durante il reich e sono immortali.
Diversi ospiti devono ancora arrivare, in mezzo al salone c’è mia madre che sta parlando con una vecchia megera ingioiellata. Me ne ricordo in modo vago, da ragazzino l’ho già vista di sicuro. Meno rugosa di adesso, ma già allora impegnata a recitare il suo ruolo di vecchia zitella di buona famiglia, con i suoi formalismi e l'attenzione alle buone maniere. Sulla sua identità, buio completo. La megera mi osserva. Mia madre mi saluta. La megera finge stupore, dice «Ma è tuo figlio? Oh, signore Gesu, ma che bel giovanotto sei diventato! E che alto, mi raccomando non crescere più!».
No signora, ho trentadue anni, senza dubbio non cresco più.
«Te la ricordi la zia Paola, vero Renato?» interviene mia madre. Senza dubbio mia madre non ha fatto apposta ma il suo intervento è risolutore: ora so che questa cariatide risponde al nome di Paola. Non che me ne importi qualcosa, ma almeno evito figuracce. “Eh la zia Paola, come no».
«Fatti salutare bene», prosegue la vecchia, avvicinandosi e porgendo la guancia. Ma cazzo! Mi tocca pure baciare questa mummia, che sembra essersi rovesciata in testa una boccetta intera di profumo dolciastro e ributtante. Mentre mia madre inizia a raccontare la storia della mia vita mi allontano più in fretta che posso. «E’ stato in Inghilterra cinque anni» sta dicendo lei. Arrivato in cucina vedo zia Elsa impegnata nel dirigere i preparativi. Scandisce i tempi come un direttore d’orchestra, tre donne eseguono velocemente i suoi ordini. Il profumo del porro che soffrigge insieme a cipolle e carote domina vicino all’ingresso. Pochi passi più in là viene sovrastato dall’aroma di un brasato che da diverse ore sobbolle sul fornello. Mia cugina Maria si appresta a qualche operazione di sicuro interessante, con una bottiglia di Barolo. Probabilmente preparerà il sugo per la carne. In fondo alla cucina trovo mio padre che al suo solito sta divorando un salame mentre trova giustificazioni improbabili per la sua stessa condotta vorace. «...no perchè quest’anno ha piovuto parecchio e l’alimentazione stessa dei suini ne ha risentito, le ghiande erano molto più acquose e le carni infatti, dagli insaccati alle parti di consumo più immediato, hanno una consistenza e un valore calorico completamente diverso». Il suo interlocutore avrà superato il secolo di vita, capisce l’Italiano ma non lo parla.
«L’è no bon?*», chiede, seduto su una sedia di legno, con il mento appoggiato al suo bastone da passeggio. «Certo che è buono, ma è leggero. Mangiare un salame di questi equivale a due fette di un salame normale»
«Aah!» annuisce il vecchio, che viene interrotto dallo zio Michele. “Nonno, lascia stare Fernando, non dargli fastidio e stai bravo lì seduto»
«Ma va a dà via il cü**!», impreca il vecchio, mentre il babbo lo giustifica dicendo «Michele figurati non mi dà nessun fastidio, ho solo pensato volesse assaggiare un po’ di salame, per questo ne stavo affettando uno»
Torno in sala appena in tempo per assistere a un’invasione di stampo barbarico, quattro bambinetti sui sei sette anni che spuntano correndo da una camera e distruggono qualsiasi cosa intralci il loro cammino, inseguiti senza successo da giovani madri fintamente disperate, tra cui la cugina Lidia e la cugina Francesca. Quest’ultima è orribile. Mi stupisce che abbia trovato un disgraziato che l’ha sposata. Insieme hanno concepito un pestifero mostriciattolo albino che mentre corre grida come un pazzo imitando la sirena di un’ambulanza.
«EEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEeeeeeeeeeeeeeeeEEEEEEEEEEEEEEEEeeeee»
«Kevin smettila immediatamente», grida la madre. Kevin. Cristo che nome, ma io dico, abiti a Vercelli, non a New York, per quale motivo devi chiamare un bambino Kevin?
Mia madre intanto sta parlando con la zia Vittoria.
«Ma che meraviglia!» commenta, osservando la collana indossata dalla zia.
«Angela, non dirlo a nessuno, ma è bigiotteria»
«Veramente? E’ incredibile, sembra vera... Renato, non saluti la zia Vittoria?»
Ecco, mi ha incastrato anche questa volta. «Ciao zia, auguri»
«Auguri, Renato caro, ma che bel ragazzo... ma senti glielo regali un nipotino a tua mamma? Guarda la mia Francesca che mi ha fatto Kevin, quel bambino è la mia gioia»
«Eh zia tu sì che hai tutte le fortune»
Mia madre si sente in dovere di insistere. «Ma davvero, e anche Lidia che ne ha due» Poi abbassa la voce e si guarda attorno con atteggiamento da carboneria «Certo Vittoria, diciamocelo, i due gemellini di Lidia sono proprio bruttini. Il vostro Kevin invece, tutt’altra pasta... si vede che è speciale. Vivace, allegro. Un amore!».
Finalmente fa il suo ingresso Gabriella, che probabilmente è rimasta chiusa in bagno a prepararsi per tre giorni, se si esclude una pausa dal parrucchiere nel pomeriggio. Mia madre sussurra a Vittoria «Guarda che mancanza di gusto, entra come una vamp dopo che gli ospiti sono arrivati, senza nemmeno averli ricevuti»
Vittoria dice «Ah, sì. E poi non mi dire che una della sua età sta bene vestita così. Ma hai visto la collana?»
«Sì un doppio giro di perle e murrine, bella eh, ma con tutte quelle rughe sul collo attira proprio l’attenzione nel posto sbagliato. E il vestito?»
«Terribile, un tubino anni settanta, tipico di una che vuol fare la giovane, e lei non se lo può certo permettere»
Dietro a Gabriella il marito Alfonso, trafelato, porta un vassoio con diverse bottiglie di spumante.
Lei gli indica il carrello dove posare il vassoio. «Bene», esordisce «Possiamo iniziare a brindare a questo Santo Natale. Alfonso, vai a chiamare tutti. Michele, versa lo spumante».
Dopo qualche istante siamo tutti riuniti nel salone per il primo brindisi, quando il ciccione che mi ha accolto in casa si porta al centro dell’attenzione. «Alt! no no no no no così non va bene. Manca ancora Gianluca. Non vorremo mica brindare senza Gianluca»
Il nonno di Michele, o almeno credo sia il nonno di Michele, il vecchio che mangiava il salame insomma, si è ormai affezionato a mio padre e gli sta attaccato. «Chi?», domanda.
«Il fratello di Giulio, nonno», risponde mio padre. A quanto pare lo chiamano tutti nonno. «Quello che tartaglia, e prima che morisse sua mamma non tartagliava, pover’uomo»
«Ah, cul tarlüc là? Ma c’al vaia a dà via i ciap***!» replica il nonno appena prima di sgolarsi l’intero bicchiere di spumante in un solo sorso. Qualcuno dice «Ma insomma, se si dice alle otto e mezza bisogna venire alle otto e mezza». Lidia si preoccupa «E se gli fosse successo qualcosa?». Elsa è pragmatica «Sì, si sarà addormentato davanti al televisore oggi pomeriggio».
Poi si apre la porta della casa, e finalmente compare Gianluca, sudato come un maiale. «S-s-s-scusate m m ma m m m m mi mi mi haanno inseguito ic ic i cani p p p p p poi è aa arrivato l-l-lozioLino» si giustifica, sputando in ogni direzione come un irrigatore da giardino. Tutti iniziano a brindare dilungandosi in auguri e inutili salamelecchi. Uno dei vari cugini per qualche ragione trova divertente augurare buone feste a tutti in spagnolo, e ad ogni persona fare una specie di inchino forse ad imitazione di un ballerino di tango o di flamenco. Per fare il giro di tutti i parenti ci impieghiamo un quarto d’ora e quando finalmente riesco a bere lo spumante è diventato caldo.
All’improvviso un urlo agghiacciante, proveniente dalla cucina, gela il sangue dei presenti. Corriamo tutti a vedere cos’è successo. Elsa è svenuta. Gabriella le porge un bicchiere d’acqua mentre si riprende, con Giulio che le sorregge la testa.
«Il brasato... è sparito», riesce a dire Elsa.
Gabriella, inginocchiata accanto a lei alza gli occhi verso gli invitati. «Guardate io non dico niente ma se è uno scherzo è davvero di pessimo gusto»
Zia Paola ipotizza innocentemente «Saranno stati i bambini».
Francesca si sente in dovere di difendere il figlio «Ma perchè dovrebbero essere stati i bambini! E’ comodo parlare dando la colpa a qualcuno, guarda Paola stai zitta perchè se dovessi parlare io ne avrei di cosa da dire, ma ne avrei per così, è ovvio che hai perso lucidità con l’età ma sto zitta che è meglio»
Mia madre sbotta. «Ah questo per te è stare zitta eh? Ma certo, si capisce da dove ha preso tuo figlio Kevin. Kevin, che nome poi... è normale che Paola pensi ai bambini, visto che il tuo è un ragazzino viziato e diciamocelo, maleducato!»
«Ma sentila!» interviene Vittoria, «Dici così solo perchè io ho un nipote e tu no, tutta invidia la tua!»
«Ah di certo non ho niente da invidiare a una che viene alla cena di Natale con una collana di bigiotteria»
Tutti gli sguardi delle donne si posano sulla collana di Vittoria, mentre questa arrossisce violentemente. Gabriella scuote la testa schifata. «Davvero, che cattivo gusto. Si vede lontano un chilometro che non è vera.»
Vittoria si riprende dallo shock. «Ah parliamo di gusto? Proprio tu che vai in giro conciata come una ragazzina, cosa che anche Angela qui, che fa tanto la moralista, non ha perso tempo a far notare a tutti»
«Sei una vigliacca!»
«E tu sei una troia! O almeno la eri, adesso non ti vuole più nessuno, neanche tuo marito».
Decido di andarmene per conto mio, prima che Gabriella cacci tutti.
Fuori l’aria è fredda. Birillo mi si avvicina scodinzolando, mi fa un po’ di festa. Non sembra neanche più lo stesso cane di prima. In fondo, vicino a una piccola baracca degli attrezzi c’è seduto lo zio Lino, assieme agli altri due cani che stanno finendo di sbafarsi il brasato.
«Avevano proprio fame, povere bestie», dice. «Li ho visti agitati quando è arrivato il tartaglione, meno male che sono andato in cucina e ho visto che avevano preparato un po’ di carne per loro»
«Zio Lino, ma sei sicuro che fosse proprio per loro?»
«Ma sì, Alfonso la carne non la mangia e Gabriella è sempre a dieta. Qui se preparano della carne, le rare volte che lo fanno, è per i cani. Non vedo perchè stavolta non doveva essere così»
«Eh già. Perchè no? Ciao zio Lino, buon Natale»
«Ciao Renato, salutami i tuoi genitori, fagli gli auguri»
«Zio Lino, sono in casa i miei genitori»
«Ah già, sì sì, la mia memoria non è più quella di una volta...»
* Non è buono?
**Ma vai a dare via il culo
***Ah quel babbeo là? Ma che vada a dare via le chiappe
mercoledì 12 dicembre 2012
Scusate, andavo di fretta.
«La
prima volta che vidi Elio Gardi capii subito che era uno scrittore,
perché intorno a lui si respirava quest'aria da caffè letterario
fiorentino di inizio novecento, e non eravamo a Firenze, potevamo
essere a Parma, o a Brescia, non ricordo, doveva essere intorno alla
metà degli anni novanta, quindi Parma, penso. Ti conquistava con la
forma, più che con la sostanza di quello che diceva. Certamente poi
c'è tutto quell'insieme di elementi che fanno
il discorso, come l'intonazione e il volume della voce, la postura,
insomma è chiaro quello di cui parlo.
Immaginatevi
un uomo sgradevole nell'aspetto, dalla voce sgraziata e squillante.
Bene, uno così può fare solo lo scrittore, per far sì che le sue
parole conquistino la gente. Lui no: aveva un'impostazione quasi da
attore. Poteva dire un sacco di cazzate e avere comunque il suo
pubblico. Poi, intendiamoci, le diceva molto bene». Faccio una
pausa. Mi verso dell'acqua, un paio di persone si alzano per uscire a
fumare, qualcuno entra.
«Ci
reincontrammo anni dopo, e questo sono sicuro di non sbagliarmi
avveniva a Pavia, dove prendemmo l'abitudine di trovarci di tanto in
tanto al bancone di un locale, a fare chiacchiere. Lui aveva queste
strane teorie sui rapporti umani, tra uomini e donne in particolare.
Un giorno ricordo che era entrata una ragazza, una certa Veronica,
parecchio in ghingheri. Mi disse: “Guarda Veronica”. La osservai,
era strano vederla così curata, visto che di solito vestiva in modo
piuttosto sciatto. “Hai notato com'è elegante? Dev'essere stata
lasciata dal ragazzo, sarei pronto a scommetterci cinquantamila lire.
Ma non è questo il punto importante del discorso. Ciò che conta è
quello che avverrà tra poco.”
Ora,
va precisato che quello era un ambiente in cui almeno di vista ci si
conosceva un po' tutti, come spesso accade. “Da quanto tempo non la
vedi in giro?”, mi chiese.
“Saranno
quindici giorni”, risposi.
“Infatti”,
riprese “avrà attraversato la prima fase dopo la rottura di un
rapporto, quel periodo di misandria in cui una donna pensa: basta
io con gli uomini ho chiuso. Ora
quella fase è evidentemente finita, ma questo è del tutto normale
Claudio non fraintendermi non ci sto vedendo nulla di strano fin qui,
soltanto desidero che tu mi segua nel discorso fino al punto cruciale
ma ti ci voglio accompagnare seguendo un percorso preciso.» A quel
punto era entrata nel locale una coppia che entrambi conoscevamo
bene. Con lei, Maria Grazia, ero anche uscito per un breve periodo:
molto graziosa ma di un'aridità sconcertante. Lui, Marco, alto e
taciturno, sempre avvolto nei suoi lunghi cappotti scuri. Elio beveva
un qualche liquore americano, non ricordo cosa fosse, ne ordinò uno
per lui e un manhattan per me.
“Bene,
parlavamo di Veronica. La consideri una ragazza facile?”, mi
chiese.
“Non
mi dà quell'impressione, no”.
“Benissimo”,
si illuminò “non la è, infatti!”.
Per
qualche motivo, se la mia affermazione valeva come un parere, la sua
era un assunto inconfutabile.
“Allora,
a parte il carciofo – il ragazzo che l'aveva presumibilmente appena
lasciata, uno con uno strano porro vicino a un orecchio – con quali
ragazzi te la ricordi?” mi chiese.
“Beh,
allora, Angelo, il Savona, Ferro, Marcello, poi? Ah sì anche mi pare
con Ema, quello di Torino, anche se non era durata molto”,
conclusi.
“Perfetto,
e che cos'hanno in comune tutte queste persone? Te lo dico io: li
conosci tutti, anch'io li conosco tutti e tra di loro si conoscono
tutti. In pratica si perpetua un orrendo rimescolamento di coppie,
tale per cui bene o male le persone che conosci sono uscite quasi
tutte insieme, a turno. Tu sei riuscito a frequentare anche quella
decerebrata di Maria Grazia, per un po'!”
“Sì,
non me ne parlare.”
“Ecco,
adesso lei sta con Marco e si sono effettivamente trovati,
intendiamoci non escludo che possa accadere anche questo: lui è
silenzioso, quindi quando parla sembra che abbia qualcosa da dire,
che sia un ragazzo riflessivo. Invece è un idiota, per lei è
perfetto: l'altra metà della mela. Ma di solito le coppie si formano
per esclusione. Veronica, per esempio, adesso farà delle
valutazioni. Questo non mi piace, quello è brutto, quell'altro è
noioso. Questo qui è impegnato, peccato perché non mi dispiaceva.
La vedi, lì che parla con Annalisa, come ride e sembra divertirsi?
Non si sta divertendo per un cazzo, questa è la verità. Sta solo
mandando in giro segnali, sta dicendo ehi guardatemi sono
una ragazza divertente e positiva (e anche figa).
Figa lo dice con i vestiti perfetti e un taglio nuovo da centomila
lire e tre ore minimo oggi dal parrucchiere. Peccato che gioca in
un'arena piccola, dove sarà difficile trovare l'altra metà della
mela. Troverà quello che passa il convento, cioè uno a caso tra
quelli liberi e decenti, e si accontenterà, credendo di avere scelto
lei. È nel posto sbagliato nel momento sbagliato, oltretutto”.
Gli
domandai il perché.
“Chi
c'è in questo momento, qui, libero e attraente? Io. Sono il
'Veronico' di turno, anch'io mando segnali in giro mentre parlo con
te”, mi disse.
“Sono
indiscutibilmente un bel ragazzo, sono single e non c'è ancora stato
niente tra me e lei. Ora la raggiungerò e le dirò un paio di frasi
che la faranno sentire donna. Cederà, vedrai. Solo, se un giorno
viene a dirmi che si è innamorata, le spacco la faccia”.»
Mi
alzo, aggiusto il microfono gracchiante dandogli una botta. «Bene,
potete credermi, funzionò, e durò anche per qualche tempo. Poi Elio
decise di partire per l'Africa e Veronica si mise con il barista di
quello stesso locale, che si era appena lasciato con una delle
cameriere. Ma sto divagando. Il libro di Elio che vi sto presentando
si chiama Scusate ma andavo di fretta.
L'ha terminato il giorno prima di suicidarsi, non aveva un titolo. Al
posto dell'ultimo capitolo ha scritto questa frase.
“Qui
doveva esserci l'ultimo capitolo ma non c'è. Perché tutte le altre
cose che dovevo fare da queste parti le avevo finite, e andavo di
fretta.
Spero
che voi lettori mi perdonerete.
Vostro,
Elio
Gardi”»
martedì 13 novembre 2012
I mostri sacri
C'è
questo tizio al bancone del bar che mi sta facendo due palle così.
Intendiamoci, sono io che sbaglio atteggiamento, e lo so
perfettamente. Se mi siedo al bancone del bar per bere un bicchiere
di vino, mi metto in una situazione simile a quella di uno che va a
lavorare al telefono azzurro, o rosa, o di qualche altro colore usato
per i maschi adulti problematici che hanno appena scoperto che la
moglie li tradisce o che a cinquant'anni gli è venuto il dubbio di
essere diventati finocchi e non sanno come dirlo al figlio, o che
sono senza lavoro. No, forse quelli che non hanno lavoro sono lo
standard, oggi. In effetti la maggior parte delle persone che conosco
non fanno un cazzo. Comunque questo individuo l'avevo già visto
qualche volta, forse ci avevano pure presentati, sta di fatto che mi
sta parlando come se fosse un mio vecchio amico. Avrà trent'anni o
giù di lì, capelli corti, vestito in modo impeccabile, una camicia
di marca scarpe e pantaloni alla moda. Forse è un po' troppo
elegante per questo posto. Dice «Il mondo è una merda. Il mio mondo
è una merda, credo. Non tutti i mondi sono una merda. Tu vivi nel
tuo mondo, dove stai bene. Non sai neanche cosa vuol dire vivere nel
mio, di mondo. Io me lo dico tutte le mattine allo specchio, quando
mi alzo. Dico: Giorgio, il tuo mondo è una merda». Ora, a parte il
fatto che è ubriaco come una spugna non strizzata, e come una spugna
odora di lezzo, e che a me del suo mondo non me ne frega
assolutamente nulla, ma lui del mio mondo che cazzo ne sa? Valuto
l'ipotesi di tirargli un pugno nello stomaco. E l'oste a quel punto
ha la pessima idea di dare un tocco di americanità al suo locale
cambiando musica. Armeggia con l'impianto stereo, cambia qualche
impostazione, fa partire un paio di larsen prendendosi insulti da
mezzo locale. Poi attaccano le note di una famosa canzone blues, e
l'atmosfera si rilassa. «Ah, il blues!» esclama il mio
interlocutore con l'aria di chi soffre felice. L'aria blues, che
coinvolge chi sta male, ti prende il cuore e lo porta con sé in
cerca di un luogo paradisiaco in cui la sofferenza nobilita e diventa
valore, diventa un percorso ascetico, eleva alla massima potenza il
tuo dolore che diventa creatività, pathos. Un ragazzo con la barba
si avvicina a Giorgio, gli mette una mano sulla spalla, lo fissa con
solennità e annuisce, stringendo la spalla in una morsa. Giorgio si
lamenta «Ahi, fai male». L'altro continua ad annuire. Dice «È il
blues».
«Ah,
sì. Il blues», risponde Giorgio, e annuisce anche lui. «Senti, la
sofferenza. Geniale», continua.
Tutto
il locale è, come un coro, sospeso in una trance uditiva, le note
dolci e strazianti entrano nei corpi delle persone e li permeano, non
escono più. Se ci fosse abbastanza gente ad assorbire ogni nota
probabilmente ci sarebbe un silenzio perfetto, in cui la musica
entrerebbe direttamente in ognuno dei presenti non restando più
nell'aria. Una sincronia di anime rapite dalla magia del blues. È il
momento perfetto per svicolare dallo scocciatore. Però voglio
lasciare un'impronta personale, prima. Voglio essere antipatico.
«Il
blues è una merda»
Silenzio.
Si ferma tutto, anche il tempo. Tutti si voltano verso di me, la
musica si blocca, qualcuno si strozza con una polpetta vegetariana.
L'amico
barbuto di Giorgio mi fissa terrorizzato. Non riesce a elaborare il
concetto, la mia frase lo ha completamente destabilizzato, si gira
verso di me mentre il suo io, sgomento, balla un fandango su un filo
sospeso tra l'odio e la follia. «Non ho capito, scusa»
«Ho
detto che il blues è una merda. Fa cagare. È una musica pacco. Fa
schifo. È morto, sono cinquant'anni che non dice più niente -e per
fortuna- solo che non ve ne siete accorti. Le sue dodici misure hanno
rotto i coglioni e i suoi assoli di sta minchia ancora di più. Sono
stato più chiaro adesso?»
È
cianotico, poi si riprende, respira, si prepara al contrattacco. «Lo
sai che dal blues deriva tutta la musica moderna?», chiede, con un
tono fin troppo pacato ed educato. Io voglio lo scontro, decido di
chiudere il match subito, alla Mike Tyson. Dico «Sì? Può darsi.
Anche noi umani discendiamo dalle scimmie, dicono. Tu scopi con le
scimmie? Ti piacciono? A me le scimmie non piacciono. Se tu lo metti
in figa a una bertuccia e ascolti il blues sei libero di farlo. Io
non lo faccio».
A
questo punto siamo la principale attrazione del locale. Io sono il
cattivo, volano pezzi di piadina e di hamburger e fischi indirizzati
a me, il brusio, le facce stupite, qualcuno dice «È pazzo».
Ci
sono cose che non puoi discutere, perché sono universalmente
accettate e nessuno si pone più domande a riguardo. Sono
I
mostri sacri.
Vado
a fare pipì, giocando di anticipo, perché rassicuro i presenti che
«Torno subito». Ovviamente in bagno, seduto con le gambe a
penzoloni sulla cassetta dell'acqua di scarico, c'è quel rompipalle
di Mister Flinn.
«Questa
volta l'hai fatta grossa, questa volta sei fottuto. Ora, io non so se
li hai guardati, sono tanti. E vogliono il tuo sangue. Credo che ti
uccideranno»
«Allora
faccio anche la cacca, già che ci sono», rispondo. «Sai che quando
muori ti si rilascia lo sfintere, no? Quindi va bene morire ammazzato
da un'orda di bluesofili ubriachi, ma almeno vorrei evitare di
cagarmi addosso, da morto»
Mister
Flinn si lancia verso la finestra, appendendosi a testa in giù alla
maniglia «Non scherzare, sono serio. Ti ricordi quella volta che hai
detto a quel tizio di Ciampino che la sua ragazza era migliorata
molto, a letto, da quando stavano insieme?»
«Uhm,
sì, ero ubriaco, io la sua ragazza manco la conoscevo»
«Bravo»,
risponde Mister Flinn, «e quello se non avesse avuto la gamba
ingessata ti avrebbe spaccato la faccia»
«Ma
che ci posso fare io se le persone non hanno il senso dell'umorismo?
Comunque questi sono un branco di imbecilli, ora devo trovare una
soluzione. Dai Mister Flinn, sparisci, che devo cagare e ragionare»
Quando
torno nel salone, una piccola folla si è radunata attorno a un
ragazzo entrato da poco, è molto triste e beve grappe come se non ci
fosse un domani. C'è chi gli dà pacche sulle spalle, chi lo
abbraccia, uno gli consiglia di non abbattersi troppo. Lui tra una
grappa e l'altra bofonchia frasi come «Simona mi ucciderà, lo so»
Il
barbuto mi si avvicina. «Che tristezza», esclama solennemente.
«Che
gli è successo?»
«Ha
messo incinta una ragazza, una relazione clandestina, sai. Ora deve
dirlo a sua moglie, perché quella il bambino se lo vuole tenere»
«Mortacci!»,
commento.
Il
barbuto mi spiega che certo lui disapprova, certi comportamenti non
hanno giustificazione, poi la moglie, Simona, dovrei vederla mi dice
è così una brava ragazza, pure uno schianto, e guarda lui cosa va a
combinare. Che schifo. Però poveraccio, si sono sposati giovani, un
momento di debolezza.
«E
poi», continua «io glielo dicevo. Guarda che quella è vegana, non
ti devi fidare. Prende la pillola, ma chissà cosa c'è dentro, alla
pillola vegana. Lui mi diceva che le altre si disperdono nei fiumi e
che poi i pesci diventano ermafroditi, e che questa funziona
benissimo arriva dall'Australia è a base di olio di sesamo scuro e
tofu e via dicendo. A me non ha mai convinto, e infatti trac! L'ha
ingallata».
Annuisco
mostrando empatia nel miglior modo possibile, anche se non me ne
frega niente. «Vatti a fidare del tofu», commento. Riesco anche ad
abbozzare un'aria riflessiva per un paio di secondi: il barbuto
sembra essersi dimenticato della discussione precedente, infatti mi
si sta rivolgendo in maniera amichevole. Che fortuna, quel coglione
ha messo incinta l'amante nel momento giusto. «Bene», concludo. «Si
è fatta una certa, e io a questo punto...»
No.
Si
avvicina Giorgio, insieme a uno strano individuo. È nero, indossa
una giacca viola sopra un maglione blu scuro e in testa porta una
coppola. Ha i baffi imbiancati dall'età. La cosa particolare è che
osservandolo molto bene si riesce a vedergli attraverso. E questo chi
cazzo è?
Il
barbuto mi spiega che le mie affermazioni non potevano essere
ignorate, quindi devo prendermi le mie responsabilità. «Come il
ragazzo al bancone ha infornato la pagnotta nel posto sbagliato, tu
hai infangato il nome del blues, e ora te la vedrai con lui»
Il
nero si rivela essere il fantasma di Muddy Waters, e mi spiega che
nell'aldilà ha seguito un corso di italiano e che ora mi sfiderà in
un duello con in palio la vita.
«A
scacchi?», chiedo.
Fa
cenno di no con la testa. «A “Indovina chi?”», sentenzia.
In
pochi istanti siamo al tavolo, dove sono già disposte le due
tavolette con le figurine. Pesco il mio personaggio, quello che Muddy
dovrà indovinare. Che sfiga, ho preso Sam! Proprio uno pelato con
gli occhiali mi doveva capitare! Muddy pesca a sua volta e mi guarda
negli occhi con l'aria di chi ha già vinto. Tocca a me iniziare.
«Senti
Muddy spiegami bene come sono le regole, cosa succede a chi vince e a
chi perde. Ha i capelli bianchi?»
Muddy
si gratta un baffo. «Allora, se vinco io tu muori e io ritorno in
vita al tuo posto. No, non ha i capelli bianchi. Il tuo ha la bocca
larga?»
Minchia,
meno male che non mi ha chiesto se ha gli occhiali o se è pelato.
Elimino dalla mia tavoletta le figurine con i capelli bianchi. Clak
clak clak.
«No,
non ha la bocca larga. Il tuo ha la barba? E se invece vinco io che
succede?»
Muddy
tira un pugno che fa tremare il tavolo «You shook me, boy!»
esclama. «Sì, ha la barba, maledizione. Beh, se vinci tu allora
resti in vita, io resto un fantasma, e potrai cancellare dalla
memoria dell'umanità tutto il blues, come se non fosse mai esistito.
È pelato il tuo?»
Cazzo
ha beccato la pelata! «Sì, è pelato. Adesso aspetta che mi devo
concentrare. Comunque, Muddy, mi sembra che con queste regole tu stia
cercando di incularmi, in qualche modo. C'è qualcosa che non mi
torna».
Muddy
emette una grassa risata, soddisfatto, e abbassa un sacco di
figurine, troppe. La posta in palio è enorme, in pratica sto
rischiando di sacrificare la mia vita per liberare il mondo dal blues
per sempre. Comunque, che mi piaccia o no, non credo di avere molta
scelta. Improvvisamente l'impianto stereo del locale inizia a sparare
a un volume allucinante un pezzo di Gigi D'Agostino, creando non poco
scompiglio. Un ragazzo con i capelli lunghi scoppia in lacrime,
qualcuno dice «No, la dance anni novanta no, vi prego!» Il fantasma
di Muddy perde consistenza e diventa quasi del tutto trasparente,
incapace di muoversi. Giorgio grida «Fermate questo scempio!», il
ragazzo al bancone beve un triplo gin in un sorso e lo vomita in
faccia al barista con un getto che ricorda il film “L'esorcista”.
Seduto
sul tavolino, di fronte a me, compare Mister Flinn che approfitta
della confusione per mettermi all'erta del pericolo incombente.
«Ti
stanno fregando», mi dice. «È una trappola, come il referendum per
abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Se vinci cancellerai il
blues, ma nel giro di pochi mesi qualcuno lo inventerà di nuovo:
devi fuggire»
«E
come faccio?»
«Ci
ho già pensato io. Guarda», mi dice Mister Flinn girandosi verso
l'ingresso del locale, dal quale dopo tre secondi entra una ragazza
armata di una mazza da hockey. Simona!
«Tu
sei finiiiitooooo!» grida, prima di lanciarsi conto il marito per
prenderlo a mazzate. Si scatena una rissa, volano tavoli e sedie. Il
barista, fradicio del gin vomitato dal ragazzo fedifrago, cerca
inutilmente di placare gli animi gridando «Non voglio noie nel mio
locale!» In tutta risposta gli arriva una bottiglia di Prunella
Ballor in mezzo agli occhi.
Riesco
ad approfittare dell'enorme confusione e a darmela a gambe. Fuori
piove, cammino per qualche minuto lungo le vie del centro città. Il
folletto è di fianco a me con un minuscolo ombrello.
«Questa
volta mi hai aiutato, grazie Mister Flinn. Hai telefonato tu a
Simona, vero? E la canzone di Gigi D'Agostino, prima... sei un genio»
«Uhm
no, io non ho fatto proprio niente. Sapevo solo che sarebbe successo.
Ah, devo confessarti una cosa. Il blues non l'avrebbe inventato più
nessuno: se vincevi vincevi e basta. E poi potevo barare e dirtelo,
che la figurina pescata da Muddy Waters era David. L'avevo visto»
«E
perché non l'hai fatto?»
«E
perché avrei dovuto? A me il blues piace»
martedì 23 ottobre 2012
Fuori sede
Le
quattro e diciotto del mattino. Dormo, o meglio cerco di dormire.
Dormivo. Forse ci sono riuscito per cinque minuti, la luce della luna
che filtra dalle finestre non è cambiata dall'ultima volta che ho
aperto gli occhi. Illumina ancora quel poster di Shark 3D appeso alla
parete. Ma come cazzo si fa ad appendere un poster di Shark 3D in
camera? Domande, sempre domande nella vita, risposte poche. C'è Mike
Bongiorno che mi chiede: «Signor Zini, qual è l'ingrediente
principale del tabuleh? Ha trenta secondi, e secondo me zero
speranze. Si ricordi che in palio ci sono duecentodieci milioni, e
quella biondina di scienze politiche».
«Scusi,
signor Mike, quella che è sempre in biblioteca con quel tizio
sfigatissimo che ha sempre la maglietta con scritto FIAT?»
«Signor
Zini, per favore si concentri, il tempo passa»
Click,
clock, click, clock, un ticchettio insopportabile. Ma che minchia è
il tabuleh?
«Voglio
l'aiuto da casa», dico, aggrappandomi ai quiz moderni.
«Signor
Zini, siamo a Superflash e Gerry Scotti ha ventisei anni. Non dica
idiozie, per favore»
Click.
Clock.
Poi
mi ricordo che negli anni ottanta i trucchi ai quiz erano più
infantili di oggi, mi guardo intorno, bingo! Un bigliettino. C'è
scritto Burghul, dev'essere il nome di un gruppo metal scandinavo.
Boh, io ci provo. Click clock click. Grido «Buurghuuulll!»
Mi
arriva un cuscino in faccia. «Ma cristo Zini ma sei scemo? Domani ho
pure un esame cazzo, ma perché non vai a dormire nella vasca da
bagno!»
E
questo chi cazzo è? Mi riprendo, l'orologio da parete dell'ikea
continua con il suo insopportabile click clock click. Le lenzuola e
le coperte sono cadute dal mio orribile letto microscopico. Il
lanciatore di cuscini non è Mike, è Agostino, il mio compagno di
stanza. Mi manda a farmi fottere ancora un paio di volte, bestemmia e
si gira dall'altra parte per dormire. Non è colpa mia se l'unica
stanza libera quando sono arrivato era una doppia. Non sono un
concorrente di quiz milionari, sono solo uno studente. Anzi, uno
studente
FUORI SEDE
Siamo
in quattro, in casa. Quando mi sveglio sono usciti tutti tranne
Tiziana, la incontro in cucina. È in piedi con in mano una tazza di
caffè, indossa un pigiama con disegnate delle foche. Seduta al
tavolo davanti a un computer portatile c'è una sua amica. Tiziana mi
chiede se voglio del caffè, l'amica non si volta nemmeno per
presentarsi, sembra infastidita dal mio arrivo, come se le avessi
tolto l'attenzione del pubblico. «Pam, chiedilo a lui, che ci
capisce di computer», dice. Ecco, ci siamo. Mi preparo
psicologicamente. Pam mi guarda come se fossi un alieno. Forse perché
indosso solo dei boxer e una maglietta con scritto “Fanculo a
tutti”, macchiata di pomodoro. Complessivamente non devo avere un
bell'aspetto. Vabbè, cazzi suoi, penso.
«Ecco,
c'era questo appello su facebook. Tu sarai uno di quelli a cui di
queste cose non gliene frega niente, penso. Bè, comunque non ti sto
chiedendo di essere d'accordo con me, ti dimostro che è vero. Leggi,
và»
Simpatica
come una gastroscopia. Leggo, và.
Pam
Pimpa ha condiviso un link
AIUTATECI
A SALVARE JULIAN!
Julian
è un bambino di soli due anni del Nebraska. È nato con una
malformazione congenita, infatti ha il pene al posto del pollice
della mano sinistra e il pollice in mezzo alle gambe. Questo crea
delle conseguenze a livello interno perché ogni volta che si succhia
il dito si piscia in bocca. L'associazione per la lotta contro le
malattie genetiche offre un centesimo di euro per ogni condivisione
di questo messaggio. Non essere indifferente, fai in modo che Julian
torni a sorridere. Servono dodici milioni di condivisioni per
raggiungere i fondi necessari per l'operazione! Invia questo
messaggio a tutti quelli che conosci. Certe persone cercano di
impedirci di salvarlo usando ogni mezzo, tu combatti insieme a noi
per il piccolo Julian!
«È
una cosa commovente», commento. «Ma il problema qual è?»
Pam,
lentamente, fa scorrere la sua pagina di facebook verso l'alto. Il
suo post successivo è:
Pam
Pimpa
Sono
una troia succhiacazzi e mi piacciono spalmati con la maionese.
Dio
mio. Mi guarda furibonda. Dice «Vedi? Lo hanno pure scritto
sull'appello che certe persone stanno facendo di tutto per impedirci
di salvare Julian. Questo insulto è un atto di terrorismo
psicologico, sono entrati nel mio computer magari dall'America. Tu
non lo sai, ma queste campagne sono importanti a livello
internazionale»
E
come no. Chiedo «ma perché non lo cancelli?»
Lei
mi dice «La gente deve sapere»
Mi
viene un dubbio, cerco di chiarire. «Deve sapere che stanno
complottando contro di voi o che ti piace la maion...» Interviene
Tiziana.
«Alex!»
Bene,
mi sono divertito abbastanza. Domando se vive da sola. No, ha quattro
coinquilini. Le chiedo se ha un gatto e come si chiama.
«Si
chiama Justin, ma che c'entra?»
«E
Justin è anche la tua password del computer, giusto?» Tiro un po' a
indovinare ma Pam è un tale concentrato di prevedibilità e mancanza
di ragionamento che sono fortunato.
«Sì,
come fai a sap...»
La
interrompo. «Forse, ma dico forse, a qualcuno che abita con te non
sei molto simpatica. Perché non provi a cambiare la password? Magari
la parola maionese seguita dal numero di caz...» Tiziana mi spinge
fuori dalla cucina e mi ritiro in camera soddisfatto.
Due
giorni dopo incontro Tiziana in università. Cammina da sola
accarezzando rami e fiori di magnolie che invadono il porticato del
cortile. Mi vede e sorride.
«Simpatica
la tua amica», le dico.
«Alex,
ci ho scopato, mica me la sposo. Comunque hai ragione è
insopportabile. Infatti l'ho accannata subito. Ah, senti mi devi
aiutare con Giovanni, non ce la faccio più»
«Ci
prova ancora?»
«Ma
non ne hai idea! Mi sta addosso in continuazione. E non si rende
conto proprio. Sarà abituato ad averle tutte, è pure un bel
pischello, ci sa fare, ok, ma a me il cazzo proprio non piace. Non so
come farglielo capire»
Giovanni
è il quarto coinquilino, quello dell'altra stanza singola oltre a
quella di Tiziana. Gode della mia ammirazione totale perché ha
superato la tragedia del povero Oreste. Per capire cos'è la tragedia
del povero Oreste bisogna sapere che il nostro padrone di casa è un
vero stronzo, un individuo ripugnante a cui la sorte ha dato in dote
due case di proprietà al centro di Milano che lui affitta a poveri
studenti fuori sede, vivendo come un parassita da una zia novantenne
completamente rincoglionita che lui, per non farsi mancare niente,
alleggerisce anche di mezza pensione facendo impressionanti creste
sulla spesa.
A
giugno se ne era andato dall'appartamento Mirko, un ingegnere di
Benevento che aveva trovato lavoro in Francia. Subito era scattata la
lotta tra me e Agostino per accaparrarsi la stanza singola.
«Io
sono arrivato qui prima»
«Io
ho comperato l'armadio pagandolo praticamente da solo»
«Cazzo
vuol dire, io ho fatto riparare il televisore gratis che se era per
voi l'avevamo già cambiato, e allora?»
A
quel punto era intervenuta Tiziana. «Regà, e basta, decido io. Ve
la giocate a birra e salsiccia, come in quel film con Bud Spencer e
Terence Hill»
Tutti
e due eravamo d'accordo. Avevamo programmato un evento con i fiocchi,
previsto per la notte del solstizio d'estate. Gli amici della Gufa
Productions avrebbero ripreso tutto con le telecamere e avrebbero in
seguito realizzato un documentario sull'avvenimento. Agostino aveva
insistito perché venisse invitato anche un mangiafuoco, io avevo
autorizzato tutto tranne l'incantatore di serpenti. Mi fanno passare
l'appetito, i serpenti.
Insomma,
il giorno prima si era presentato il padrone di casa dicendo che la
singola la avrebbe affittata lui a una persona di fiducia, anzi,
aveva detto proprio così, «Ho numerosi candidati, gente seria,
educata. Cercate di dare una pulita, evitate almeno di presentarvi
subito per quelli che siete».
Era
una dichiarazione di guerra. A quel punto l'unica arma a nostra
disposizione per mettere in fuga i suoi candidati seri ed educati era
“Il
povero Oreste” - tragedia in due atti
Alex
Zini è Alex.
Agostino
De Nardi è Ago.
Tiziana
Micheli è Tiziana.
Il
candidato inquilino è Righetti il candidato. (a ogni
rappresentazione il candidato cambia)
Atto
primo.
Drin.
Suona il campanello.
(Ago
apre la porta, entra il candidato)
«Piacere,
Agostino»
«Righetti»
«Venga,
si accomodi. Vuole un caffè?»
Candidato
(sedendosi al tavolo in cucina) «Gradisco molto, grazie. Fa un
caldo!»
Ago
«Eh sì. Dicono che sarà l'estate più calda degli ultimi anni»
Da
una stanza vicina si sente suonare della musica. (Va bene qualsiasi
cosa purché di un gruppo il cui cantante si sia suicidato)
Ago
«ah» (sospira) «Venga, le mostro la casa»
Candidato
«Grazie»
Giungono
in bagno.
Ago
«Questo è il bagno»
Candidato
«Bello, spazioso. Ma il signor (omissis – il cognome del padrone
di casa) disse che ci sono altri inquilini»
Ago
«Sì, come ha visto però non sono in bagno»
(Tornano
in cucina, dove arriva Alex)
Ago
«Ciao Alex, lui è il candidato Righetti»
Alex
(Si stringono la mano) «Lieto di conoscerla. Ago, mi versi un
caffè?».
Candidato
«Righetti»
Ago
«Zucchero?»
Alex
«Grazie, m'impingua. Stasera ho un ballo»
Atto
secondo
Ago
«Ma quindi bando alle ciancie, mostriamo al candidato la sua nuova
stanza, la stanza del povero Oreste»
Candidato
«Il povero Oreste?»
Alex
«Già. Povero Oreste!»
(Raggiungono
la stanza)
Ago
«Terribile. Che disgrazia»
Alex
(indicando un angolo della stanza) «Proprio là!»
Ago
«Già, proprio là»
Candidato
«Dove?»
Alex
«Là»
(Osservano
in silenzio per qualche secondo l'angolo indicato da Alex)
Alex
«Ago, non noti anche tu una certa somiglianza tra il candidato
Righetti e il povero Oreste?»
Ago
«Non volevo dirlo, ma è impressionante»
Candidato
«Non direte sul serio, spero»
(Arriva
Tiziana, di colpo impallidisce fissando il candidato)
Ago
(la guarda, poi indica il candidato Righetti) «Gli assomiglia,
vero?»
Tiziana
«Aaaaahhhh» (strilla, e scappa. Torna con una foto, piangendo)
«Era
lui, lo guardi»
Il
candidato Righetti nota qualche somiglianza con la foto (scelta da
Tiziana, dopo averlo visto, tra un mucchio di un centinaio di
ritratti precedentemente incorniciati, rappresentanti la più vasta
varietà di fenotipi possibili, compreso un maori e una foto di Pippo
Baudo da giovane).
«Curiosa
somiglianza devo ammettere»
Ago
«Povero Oreste»
Candidato
(ora visibilmente preoccupato)«Ma cosa gli accadde?»
Alex
«Una disgrazia»
Tiziana,
singhiozzando «Pro- proprio là»
Ago
«Sì, proprio là»
Alex
(si avvicina con un maglione di lana odoroso di naftalina) «Candidato
Righetti, le andrebbe di provare a indossarlo? Era il suo»
Ago
«Sì, era il suo preferito»
Alex
«Avanti, lo provi»
Il
candidato Righetti scappa dalla casa correndo.
Festeggiamenti
finali.
La
tragedia del povero Oreste aveva funzionato alla perfezione con i
primi sette candidati, poi era arrivato Giovanni che non era
scappato. Aveva indossato il maglione ridendo e aveva detto «Aò
regà, siete dei gran paraculi. Posso tenerlo, il maglione? Tanto al
povero Oreste non gli serve più, no?»
Addio
gara di birra e salsiccia.
Osservo
Tiziana, graziosa nonostante i suoi tentativi di castigare la
femminilità in abiti da ragazzo. Vorrei guadagnare tempo, distrarla
dall'idea di liberarsi di Giovanni, sono convinto che le passerà. E
che in fondo si diverte, anche se non lo vuole ammettere.
A un
tratto arriva la biondina, quella del quiz di Mike Bongiorno. È
impegnata a discutere con il solito tizio con la maglietta FIAT. Lui
si volta e corre verso Tiziana salutandola con affetto. Non sapevo si
conoscessero.
«E
lei è Flaminia, mia sorella»
Sua
sorella. Cazzo! Non ci avevo pensato.
E io
resto lì a guardare, non del tutto consapevole di aver capito bene
se in questo mondo a volte le impressioni sbagliate sono tali solo
quando poi la realtà è anche peggiore della fantasia oppure, come
sembra questa volta, no. E lei saluta Tiziana quasi per forza e poi è
lì davanti a me che mi parla e gesticola e mi racconta cose mentre
Tiziana e il fratello hanno già finito di comunicare da tempo e lui
sposta il peso da un piede all'altro ma lei, la biondina, non se ne
va, no. Resta lì e mi dice che sono quello che suona nei Radical
Sick e che le piacerebbe venire a sentire le prove almeno una volta e
questo è il suo numero di telefono, ci terrebbe tantissimo, oppure
anche solo una sera a bere qualcosa. Li salutiamo. Mi viene un
dubbio.
«Tiziana,
tu che sai sempre tutto»
«Eh»
«Con
cosa si prepara il tabuleh?»
«Con
il burghul»
Lo
sapevo. Ho vinto, adesso mi mancano solo i duecentodieci milioni. Ma
non è che Mike me li vorrà dare in lire?
martedì 16 ottobre 2012
Tiro libero
Dicono
che è tutta questione di concentrazione.
Dicono
che devi tenere un po' il culo all'infuori, e fare una C con
l'avambraccio, il braccio e il polso. «Devi imparare a spezzare il
polso, o non sarai mai un giocatore», diceva sempre il coach, non me
lo sono dimenticato. Poi è una questione di spinta sulle gambe. E
Il tempo, quello corre piuttosto veloce. Non è che puoi restare lì
all'infinito a concentrarti, perchè lei lentamente brucia. Lui è
lì, immobile a terra, con i suoi otto occhi allungati a file di due.
Lo guardo, con una certa apprensione: ho scommesso ormai, quell'esame
per cui sto studiando da un mese si deciderà qui. Patrizia continua
a parlare e vorrei starla a sentire, non è male Patrizia, è carina
e dice cose sensate, ma stasera io sono quello che ha il tiro libero
da cui dipende la finale dell'NBA, sono da solo contro gli errori di
traiettoria, sono potenzialmente un vincitore o un perdente e tutto è
legato a un solo tiro.
Canestro,
sigaretta nel tombino e domani passerò l'esame, altrimenti sono
spacciato, il professore mi chiederà sicuramente le società. E io
la parte sulle società non l'ho neanche letta. Testa di cazzo,
potevo studiarla, ma se non rischio non sono contento.
La
sigaretta continua a consumarsi, ormai ho le dita che scottano. Tra
me e il tombino dagli otto occhi ci sono due metri, poco meno forse.
Sto per tirare, prima di ustionarmi indice e medio. Patrizia dice che
ha visto Antichrist di Lars Von Trier, poi mi racconta di un
documentario sui pescatori Islandesi. In effetti parla troppo. Le
dico «Scusa Patrì, due minuti». Se ne va leggermente offesa. Mi
concentro di nuovo, ci siamo.
Le
altre persone fuori dal pub fanno finta di niente ma io so che loro
sanno. Alcuni domani saranno lì in aula a tremare con me, accomunati
dai nostri livelli di preparazione parziali, credo che molti di loro
stiano facendo finta di parlare per non far vedere che, in fondo,
fanno il tifo. Tranne quello stronzo di Marco Forni, si intende, lui
gli esami vorrebbe essere l'unico a passarli.
Mi
abbasso, culo in fuori, arco a C con il braccio, mi do una leggera
spinta, la sigaretta sta per staccarsi dalle mie dita per compiere
l'arco rivelatore. Il tempo rallenta. Il pubblico in piedi, tutti
trattengono il respiro. Il polso si spezza. Sbam! Il busto barcolla.
Questo non era previsto. Non ci credo, una cazzo di pacca sulla
spalla, proprio adesso? La sigaretta compie un arco improbabile e
finisce a mezzo metro dal tombino. Il tempo riprende a girare, il
pubblico si copre la faccia con le mani. Le urla di gioia muoiono in
gola, non esploderanno mai. Ma chi cazzo è? Chi ha deciso di
sacrificare proprio oggi la sua inutile esistenza in nome di una
pacca su una spalla?
«Bella
Francè! Anvedi oh so tre settimane che nun te fai vedè»
Federico,
porcozzio. Mentalmente faccio un elenco degli strumenti più disumani
visti al museo delle torture di San Gimignano. «Mortacci tua!»,
quasi grido. Non se ne cura. «Allora hai finito de studià? Peccato
che hai l'esame, stasera ce sta una festa Erasmus da paura, al
pigneto». Ho capito, per questa volta lo perdonerò.
«A
Federì, mi sa che a sto giro l'esame non lo do. S'annamo a beve 'na
sciocchezza?»
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